Cosa mangiavano i Romani?


I pasti della giornata  erano tre. La prima colazione (ientaculum) si consumava nel primo mattino e comprendeva pane, formaggio, uova, verdure dell'orto, olive, vino puro o con miele.  I bambini potevano mangiare anche biscotti e piccoli dolci.  Intorno a mezzogiorno aveva luogo un secondo pasto veloce (prandium), spesso consumato in piedi, a base di analoghi alimenti, preparati freddi o caldi. In epoca arcaica il pane non era usato nel Lazio, ma piuttosto polentine di farro, orzo, miglio, successivamente di frumento (il mais fu importato dopo la scoperta dell'America).  Questa polenta era chiamata puls e fu alla base dell'alimentazione dei latini per tutta l'epoca antica. Era preparata facendo bollire nell'acqua o nel latte dei cereali macinati; poteva essere arricchita con l'aggiunta di lenticchie, fave, ceci. Solo in un secondo tempo si impose l'uso del pane azzimo, tipo piadina, o lievitato. 

"La fatidica formula panem et circenses è, almeno sino al III sec. d.C., metaforica: la plebe non riceveva pane, ma frumento" (G. Pucci, p. 379), il quale veniva usato per preparare la puls o altri piatti. In età imperiale esistevano comunque diversissimi tipi di pane: c'era il pane dei poveri, chiamato cibarius, e quello nero (ater) e un po' indigesto per l'abbondante presenza di crusca; c'era poi il pane bianco (candidus) e tenero dei ricchi; e ancora quello condito con burro tipico del Nord Italia e della Gallia o quello dolce, il buccellatum, simile a un biscotto. I contadini e gli operai, e comunque chiunque svolgesse lavori pesanti, usava pagnotte arricchite con formaggio e miele. 

La Tavola

Il pranzo vero e proprio era la cena, che iniziava nel tardo pomeriggio e si protraeva anche per diverse ore (in certi casi anche per tutta la notte sino al mattino successivo). Durante la cena si riunivano la famiglia e anche gli amici; essa rappresentava non solo l'occasione di nutrirsi (come la prima colazione e il prandium), ma un importante momento conviviale e di piacere. "La cena, a Roma, è uno dei grandi momenti della giornata. I convitati non si limitano soltanto a mangiare, ma celebrano un rituale sociale, quotidiano, fondamentale alla coesione della comunità. (...) Ogni sera, l'uomo romano si inserisce in una comunità umana, famiglia e amici, associazione religiosa, condividendo i piaceri di una cena. Soltanto il celibe sfortunato, la sera in cui non viene invitato o non invita qualcuno, deve accontentarsi di un pasto frugale" (F. Dupont, p. 28; p. 287). È questa mentalità che ci aiuta a capire il significato di componimenti come quello di Catullo rivolto all'amico Fabullo (c. 13) o di tanti versi oraziani (cfr., ad esempio, Sat. I 6, 115; II 7, 29-35 ecc.). Lo svolgimento dei pasti Con l'età imperiale la cena si consumava in stanze apposite, i triclinia, in cui si trovavano dei divani disposti a ferro di cavallo dove i commensali stavano semisdraiati, appoggiati sul gomito sinistro (la mano destra era libera per mangiare). Per i romani, infatti, sedersi a tavola era proprio degli zoticoni di campagna o dei provinciali. Al centro della sala stava la tavola (mensa). 

Le Portate

Le portate erano servite dagli schiavi sulla tavola centrale e poi offerte ai convitati. Venivano usati anche carrelli di servizio attraverso i quali i commensali potevano attingere direttamente ai grandi vassoi di portata. Il convitato aveva a disposizione un piatto su cui metteva il cibo. Questo, poi, veniva portato alla bocca direttamente con le mani, senza l'uso di forchette o coltelli. Le porzioni venivano tagliate prima dai servi. Inoltre i romani amavano i cibi ben cotti e molto teneri, ragion per cui i commensali non usavano i coltelli. 

Solo il cucchiaio era indispensabile per i cibi liquidi o semiliquidi. Questo uso durò sino all'età medioevale. Il banchetto comprendeva tre momenti principali. Nell'antipasto (gustatio) si servivano cibi che stuzzicassero l'appetito, accompagnati da vino dolce. Non vi erano i primi piatti, ma, dopo l'antipasto, si passava direttamente a quelli che per noi sono i secondi: si trattava di portate a base di verdure, cereali, uova, legumi, carni e pesci.  Alla fine c'erano le secundae mensae, ovvero il dessert, con dolci e frutta. Questo ultimo momento prevedeva brindisi, giochi, spettacoli di mimi, canto e danza. I convitati venivano inghirlandati e profumati (si veda il carmen 13 di Catullo) e talvolta invitati anche a intrattenimenti licenziosi. Plinio il giovane, per esempio, ci informa che le secundae mensae dell'imperatore Traiano erano "oneste" perché prevedevano solo letture e musica. Ben diverso appare invece il banchetto di Trimalcione descritto nel Satyricon. Le cene dei più poveri erano basate sugli stessi alimenti del veloce prandium mattutino. 


Gli alimenti 

L'alimentazione dei romani era piuttosto simile a quella dei greci, basata sui prodotti tipici del Mediterraneo, come olio, vino, ortaggi, frutti tipici. Una differenza tra i due popoli riguarda il cereale alla base della puls: per i greci era l'orzo, per i romani, soprattutto in epoca più antica, il farro. La maggior parte dei piatti era preparata con alimenti di origine vegetale. Nella cucina romana avevano largo impiego i cereali, fondamentali per il loro valore nutritivo, i legumi e gli ortaggi (holera). Non mancavano mai la cipolla e l'aglio per insaporire i piatti. I frutti più apprezzati erano i fichi, le mele, le pere, le castagne, le mandorle. La popolazione consumava poca carne. Il tipo di carne più usato era di maiale e di scrofa (le mammelle di scrofa erano considerate particolarmente prelibate). Anche dai resti archeologici emerge che l'animale più comune nel Lazio antico, ricco di querce e lecci, era il maiale. A tavola erano impiegate anche le carni ovine, caprine, nonché la selvaggina (lepri, fagiani, tordi ecc.). Si mangiavano raramente manzi e vitelli, considerati animali da lavoro o trasporto. Solo i bovini più vecchi o malati venivano macellati per scopi alimentari; la loro carne veniva fatta bollire a lungo oppure arrostita. Nei banchetti dei ricchi o alle mense delle popolazioni di mare si consumava pesce azzurro, come sgombri, orate, acciughe, sarde, e anche seppie, calamari e molluschi. I pesci provenivano anche da allevamenti (piscinae). 

L'apporto di proteine animali era quindi piuttosto scarso e veniva integrato dai grassi vegetali, in particolare dall'olio di oliva, che era il condimento di base nell'Italia centro-meridionale (in Gallia Cisalpina si usava in alternativa il burro e il lardo). L'olivo, importato dalla Grecia, era coltivato già a partire dal VI sec. a.C. in Lazio e in Etruria. La cucina romana non aveva a disposizione elementi per noi divenuti indispensabili, come il pomodoro, le patate, gli agrumi, le melanzane. Anche lo zucchero e la dolcificazione fu spesso un problema per i cuochi romani. Solo pochi conoscevano il saccharon (zucchero) che veniva importato dall'Oriente ed era carissimo. Per rendere dolci gli alimenti o le bevande si usava generalmente il miele, i datteri, l'uva passa. Ma il miele dei romani, poiché gli apicoltori affumicavano le arnie per poterlo estrarre, aveva un retrogusto particolare. Il miele o prodotti dolcificanti venivano ampiamente usati anche per le carni e le verdure, che ottenevano così spesso un gusto agro-dolce. Il miele aveva costi notevoli, quasi pari al migliore olio di frantoio. Anche il sale era un ingrediente piuttosto caro e non sempre disponibile, soprattutto nelle mense dei più poveri: veniva sostituito con il garum, una salsa salata a base di interiora fermentate di pesce. 

Il Vino

Un altro elemento immancabile nella cucina romana era il vino, usato come bevanda, spesso allungato con l'acqua, oppure come ingrediente nei più diversi piatti. Il vino era vietato alle donne e ai giovani. I più poveri, i contadini e i soldati bevevano la posca, un miscuglio di acqua e vino di scarto che incominciava a inacidirsi. Con questa bevanda era stato bagnato il panno che il legionario romano passò sulle labbra del Cristo morente non come gesto di scherno, ma di pietà. La birra (cervisia) invece fu sempre considerata una bevanda da barbari. Mentre in epoca arcaica i romani furono in cucina molto frugali, con le conquiste nel Mediterraneo anche la gastronomia si fece più raffinata ed esotica. Sulle tavole dei ricchi arrivarono cibi e ricette straniere; si incrementò via via sia il consumo della carne, al posto di puls e holera, sia quello del vino. 

Etá Imperiale

Con l'età imperiale, cibarsi prevalentemente di alimenti vegetali, come era prassi comune nella Roma delle origini, divenne un ideale di vita da contrapporsi alla luxuria e al degrado morale dei tempi. In origine erano le donne della casa a preparare il pasto, successivamente nelle famiglie più ricche questo compito passò ai cuochi (coqui), alcuni dei quali raggiunsero una notevole fama tanto da venir contesi dalle famiglie più abbienti. Una delle capacità dei cuochi romani era quella di saper trasformare i cibi tanto da renderli irriconoscibili. Questo piaceva ai nobili e ai più ricchi che non amavano i gusti semplici, ma quelli profondamente manipolati che non permettevano di riconoscere quale fosse l'ingrediente-base del piatto. Ecco perché i condimenti erano importantissimi: tra gli aromi più usati dai cuochi c'erano il pepe, il cumino, il ligustico (un tipo di sedano), lo zafferano, lo zenzero, la menta, oltre all'aglio e alla cipolla. Nel banchetto descritto nel Satyricon i commensali sono spesso stupiti alla vista e al gusto delle portate preparate con alimenti diversi da quelli che apparivano. L'estetica di un piatto era molto importante: il bravo cuoco sapeva disporre con straordinaria creatività i cibi nei piatti di portata.